Perché iniziare a usare Joomla?
Durante la lettura del libro di Carlotta imparerai a conoscere il progetto Joomla ma anche a conoscere l’autrice che simpaticamente ci racconta molto della sua vita. Con autoironia e perle di saggezza ci invita a rispolverare quelle sane passioni che avevamo da ragazzi, per utilizzarle come talenti nella nostra nuova professione.
Il web design è arte. Il senso estetico unito all’usabilità, ma anche filosofia e strategia, che passano dalla scelta del CMS fino alla psicologia da utilizzare nel rapporto con i clienti.
Un mestiere che possa sostenerci economicamente e mantenerci liberi con strumenti liberi, svolto con sacrificio e passione ma anche con stile e creatività, per andare oltre alla moltitudine di siti spazzatura e senza grazia ma portare sul web piccole opere d’arte.
Le utili indicazioni dell’autrice e degli altri professionisti che hanno dato il loro contributo in questo testo sono un tesoro per chi vuole avviare la propria attività di web designer. Anche per chi, come me, non è agli inizi come professionista e non è esperto in web design molti capitoli risulteranno illuminanti.
Siamo fortunati ad averla nella community italiana di Joomla.
Joomla non è facile, ma imparare a usare Joomla è facile
Il progetto (… e non chiamatelo mai prodotto) Joomla ha oramai quasi 10 anni, certamente non è il miglior CMS attualmente disponibile, ma è fra i più popolari. Ha permesso a moltissime persone di poter pubblicare in maniera indipendente la propria voce sul web, mostrare le proprie idee, prodotti, servizi, ecc. e ancora oggi viene utilizzato come piattaforma ideale in tutte le parti del mondo.
Proprio in questi ultimi 10 anni il web si è evoluto moltissimo, i vari social network hanno forse distolto l’attenzione dall’esigenza di avere una propria pagina web, un proprio sito internet autogestito. Inoltre il forte periodo di crisi economica ha portato nel nostro paese a una diminuzione costante della registrazione di nuovi domini e molti non rinnovano più quelli registrati in passato.
Queste e altre considerazioni di carattere generale, unite alla grande difficoltà nel mantenere aggiornate le vecchie versioni di Joomla, il continuo calo della quantità e qualità di estensioni veramente gratuite e la scarsa disponibilità di buoni template free hanno fatto perdere un poco di entusiasmo e notorietà al progetto. Il quale con la nuova versione 3 torna a proporsi come base solida per i webmaster promettendo di aver imparato dagli errori del passato.
Il web è cambiato ed è in continua evoluzione, realizzare un buon sito internet richiede sempre più conoscenze. Nuove metodologie e tecnologie continuano a fondersi e riuscire a mantenere il giusto equilibrio nella realizzazione di pagine web è molto importante. Queste devono ora adattarsi a una moltitudine di dispositivi, apparire velocemente, essere conformi ai nuovi standard, ecc. (Responsive, HTML5, Microdata, TAG, LESS CSS, Cloud e molto altro).
Joomla 3 permette di rimanere allineati con le attuali esigenze tecnologiche, ma richiede un impegno e un apprendimento leggermente superiore rispetto alle versioni precedenti.
Disponibile sempre gratuitamente e liberamente, oggi sembra più indirizzato ai webmaster che ai semplici utilizzatori. Comunque gli strumenti per imparare velocemente ci sono, prima fra tutti la community italiana di appassionati e utilizzatori di questo CMS. Su joomla.it puoi trovare un supporto gratuito e volontario in pieno spirito open source, guide e articoli sulle ultime novità, forum di discussione, file lingua tradotti in italiano, pacchetto di installazione localizzato e molto altro. Non mancano poi ottimi libri, come questo, che permettono a molti di approfondire le conoscenze nell’utilizzo di Joomla per poi magari tornare a condividerle con la community.
Condivisione e collaborazione libera, volontaria e gratuita
Sembrerà strano ma tutto il progetto Joomla si basa proprio su questo modello di sostenibilità. A differenza degli altri noti CMS non ci sono aziende “padrone” dietro lo sviluppo e la progettazione, non ci sono dividendi da spartire, non ci sono sviluppatori professionisti retribuiti per lavorare al codice. Solo la grande passione di molti che dedicano il proprio tempo libero per contribuire in modo etico con le proprie competenze. Membri di un team che si alternano spesso, provenienti da molti Paesi, con culture e professionalità molto differenti ma che si uniscono e si coordinano virtualmente in rete per sviluppare un codice open source a supporto di un progetto in cui credono fortemente e che spesso utilizzano nella propria attività.
Sono più di 400 le persone che attualmente contribuiscono a vario titolo alla scrittura del codice di Joomla, a differenza degli altri noti CMS dove ne troviamo solo alcune decine.
Ma ovviamente non è necessario essere esperti sviluppatori e programmatori per poter dare il proprio contributo in questa vasta community. C’è un team che si occupa della documentazione, uno che si occupa della comunicazione, uno per le traduzioni e molti altri sono gli aspetti in cui poter essere coinvolti.
Anche Joomla.it è un esempio di come molti tornano a condividere liberamente le proprie idee ed esperienze. C’è chi pubblica articoli e guide sull’utilizzo, oppure recensioni su estensioni utili, chi dà supporto sul forum rispondendo alle domande dei principianti. Non siamo particolarmente esperti, ma siamo appassionati di quello che facciamo ed è questo l’unico requisito richiesto per poter far parte della community.
Molte sono le aspettative che i webmaster ripongono a oggi in Joomla, spesso nascono feroci critiche sulle tempistiche o sulle nuove caratteristiche, ecc., dimenticandosi probabilmente che non si tratta di un prodotto da prendere e utilizzare esclusivamente per la propria attività, ma si tratta di un progetto che può continuare a crescere solo grazie all’aiuto di tutti.
Esperto in Ozio e Admin di Joomla.it
1. Perché te ne sto parlando proprio io
Ci sono mattine e mattine.
Ci sono quelle in cui non ti vorresti nemmeno alzare per il terrore di leggere quelle mail cariche di “casini da sgurare” – come direbbero in Romagna – che nella vita di un web designer implicano la perdita di tre ore di tempo per risolvere un problema sorto inspiegabilmente dal nulla.
E poi ci sono quelle mattine in cui, tra decine di missive elettroniche, ce n’è una il cui oggetto è “Proposta editoriale”.
Il cuore si blocca, mentre il demone dell’autostima suggerisce con ottimo tempismo che di sicuro si tratta di spam o di quelle tragicomiche catene di network marketing, in cui un sagace imprenditore improvvisato spera di farti lavorare “aggratis” in cambio di visibilità.
Divorai quella mail in pochi istanti, vivendo il momento con la stessa sensazione di un abbraccio da parte della vita. Se pensi che sia una reazione un po’ eccessiva, leggi con attenzione i prossimi paragrafi in cui ti spiego perché attraverso questo testo sarò proprio io a darti una mano a diventare un buon web designer e perché è così importante per me poterlo fare.
Devi sapere che non sono una di quelle ragazze nate in un ambiente ovattato e prosperoso dove c’è tutto il tempo di godersi ogni tappa della giovinezza, in attesa di consolidare un futuro sotto l’ala protettiva di mamma e papà. Sai, quelle realtà stile Mulino Bianco dove, anche se nessuno sorride, c’è sempre un gruzzoletto riparatore.
Sì, proprio quel gruzzoletto con cui a 6 anni hai la Gaucho, a 14 il motorino, a 18 patente e macchina e nel frattempo non ti sei mai dovuto preoccupare di nulla se non di studiare, giocare, divertirti spensierato.
Il mio caso è decisamente diverso.
Io sono cresciuta in una famiglia dove la logorante ristrettezza economica veniva compensata attraverso grandi quantità di stimoli mentali. Un padre divoratore di libri, ottimo oratore, dall’intelligenza brillante. Una madre fine, silenziosa, composta, amante della musica e del canto, in grado di trasmettere con poche parole una profondità d’animo disarmante e amore incondizionato nel senso più ampio del termine. La televisione era un sogno nel cassetto, i giocattoli arrivavano solo a Natale, gli sport o gli hobby tutti proibitivi e di conseguenza anche gli eventi mondani e i compleanni degli altri bambini. In compenso potevo accedere a una riserva pressoché illimitata di carta, matite, colori, tempere.
Scrivevo e disegnavo gran parte della giornata.
All’età di otto anni avevo già all’attivo un “libro” (una trentina di pagine di quadernino a righe) di poesie, qualche racconto e iniziavo ad appassionarmi alle storie comiche, che trasformavo in piccole recite la cui vittima designata era sempre il mio adorato fratello Francesco, che – condannato dallo status di secondogenito – si rassegnava a partecipare.
Avevo forse 12 anni quando, per esigenze scolastiche, mio padre mise da parte i soldi per acquistare un pianoforte elettronico (un CASIO CTK910 che chiamai Summer con tanto di nome inciso a spillo); aggiunsi la musica e il canto ai miei passatempi preferiti.
Vivevo di creatività. Era bellissimo. Non c’era pianto, rinuncia, sofferenza, delusione che non potesse essere colmata da un nuovo disegno, da una canzone o una confessione in quei diari che mi sforzavo di tenere con scarsa costanza.
Arrivato fin qui avrai capito che sono sempre stata piuttosto ciclonica e questa è una caratteristica importante nel nostro lavoro, dal momento che curiosità e movimento costante sono essenziali per sopravvivere in un mercato saturo e dall’evoluzione continua.
Conoscere la mia storia ti farà comprendere che ogni pixel riempito nel monitor, precedentemente, è stato un tratto di matita sul foglio a quadretti: quel movimento è frutto di anni in cui la mano e il cervello si sono sincronizzati per renderlo sempre più pulito, preciso.
La stessa cosa vale per le parole e per qualsiasi altra operazione da affinare con l’esperienza. Anche se non ce ne rendiamo conto, la nostra competenza attuale attinge da radici antichissime, in parte inconsce e in parte prosperate durante l’infanzia e l’adolescenza.
Io innaffiavo ben volentieri il mio orticello creativo. Alle medie, con fogli, pinzatrice e grande entusiasmo, confezionai ben due libri in cui raccolsi racconti e caricature dei miei insegnanti. Poi venne il tempo delle superiori, dove scrivevo nel giornalino della scuola e a 17 anni il mio primo vero articolo giornalistico venne pubblicato in un inserto del Resto del Carlino di Bologna.
Tagliando tutte le tappe intermedie (perché altrimenti dovrei scrivere un libro solo su questo) salto al periodo post diploma, in cui il bisogno di unire l’arte, la scrittura, e una crescente passione per l’informatica sono sfociati nel desiderio irreprensibile di diventare web designer.
Come nei migliori film, però, il percorso non poteva essere così semplice e lineare.
Devi sapere che ho un piccolo disturbo che tra le altre cose mi porta a non “connettere” correttamente le operazioni logiche: se vedo un’equazione di primo grado non riesco a svolgerla e faccio molta fatica a leggere e interpretare qualsiasi cosa riguardi i numeri. Se vuoi mettermi in crisi chiedimi di controllare l’esattezza di un numero telefonico o di ricordare a memoria una porzione di codice. Non ne esco.
Ma io non rinuncio facilmente e – stoica – decisi di continuare il percorso di studi guardando con timore reverenziale la Facoltà di scienze matematiche fisiche naturali di Bologna, in poche parole l’ultimo posto dove avrei mai pensato di finire.
Anche la mia professoressa di matematica delle superiori, Anna Quinzani, dopo tre anni in cui non riusciva ad assegnarmi un voto più alto del 2, mi disse che ero folle all’idea di iscrivermi alla facoltà di informatica e mi liquidò con un «non ce la farai mai».
Oltre alla stima immensa che ho tutt’ora per lei (che mi ha sempre cazziata per le mie pessime performance matematiche e al contempo è stata l’unica a sforzarsi di capire cosa non funzionasse in una studentessa con buoni voti in tutte le altre materie), le sarò anche eternamente grata, perché il suo diktat ha acceso in me la sfida nei confronti della professione.
Tra un esame e l’altro, alla facoltà di information technology, mi sono accorta che si stava ripetendo lo stesso adagio delle superiori. Tanto andava bene se si trattava di marketing o reti, quanto poteva andare male se dovevo toccare numeri o grandi quantità di codice.
Era vero, non ce l’avrei mai fatta.
Umiliata e sconfitta, gli stipendi da fame dei miei colleghi neolaureati (400-600 euro al mese in stage eterno) mi diedero la giusta motivazione per salutare per sempre il mondo universitario, i suoi docenti arroganti, la competizione ai limiti del ridicolo e i siparietti tipicamente italiani dove i rettori sono Magnifici, ma sostanzialmente non mettono i giovani nelle condizioni di essere pronti per affrontare una professione.
Quest’ultima frecciatina è rivolta non solo all’inefficiente sistema scolastico italiota – bravo a riempire lo studente come una bottiglia, ma poco capace di fargliene apprezzare il contenuto – ma anche a tutti quei web designer che, nonostante una formazione da paura con il massimo dei voti, non si fanno una ragione del fatto che un sito web vada progettato pensando che qualcuno dovrà visitarlo e magari trovarci quello che cerca. Chiedo troppo se aggiungo anche che l’utente in linea teorica dovrebbe anche tornarci più volte e condividerne il contenuto?
Polemiche a parte – ebbene sì, sono abbastanza rompiscatole – io avevo un obiettivo e dovevo raggiungerlo. E presto mi accorsi che la pratica sul campo, per quanto relegata ai ritagli di tempo, era decisamente più efficace delle otto ore consecutive di Java e dei mattoni di basi di dati.
Il mio vero percorso è iniziato dal giorno in cui ho installato FrontPage per crearmi un sitarello personale, passando in seguito per Dreamweaver, seguendo l’istinto nel bocciare l’allora astro nascente Flash, fino allo sposalizio con Joomla.
Quello che sto cercando di trasmetterti è un concetto basilare: puoi anche essere un cavallo sul quale non scommette nessuno, l’importante è che quello a fare la puntata massima sia proprio tu.
La prova che questo ragionamento torna – non me ne vogliano gli studenti modello – sta nel fatto che Enrico Flaccovio ha inviato al mio indirizzo quella famosa mail in cui cercava una persona che parlasse di una materia complessa come il web design.
A oggi ho all’attivo una sequela di quelli che amo definire “cadaveri low cost” (clienti low budget che più avanti ti insegnerò a evitare), molti progetti in cui il committente ha voluto l’ultima parola con mio grande disappunto (esatto, proprio quelli che non metteresti mai a portfolio), un paio di lavori dei quali vado fiera e tante, tantissime cose da raccontare a chi ha scelto di avventurarsi in una carriera articolata come quella del web designer.
Il titolo di questo capitolo è Perché te ne sto parlando proprio io, ma arrivati a questo punto posso aggiungere un sottotitolo: E quindi perché puoi farlo proprio tu.
Questo testo non è il classico manualetto “how-to” in cui passo passo ti spiego come installare Joomla e mettere online un sito funzionante. È qualcosa di più intenso, quasi un codice deontologico del buon web designer che ti insegnerà a mettere valore aggiunto a ogni progetto, e quel valore non sei altro che tu.
D’altra parte, spero che questo libro possa fungere anche da filtro per scoraggiare gli automi.
Il web design è arte, prima di tutto. Chi cerca di incasellare la costruzione di un sito web in un mero processo meccanico, dando vita a ecomostri quali i generatori automatici di siti vetrina, sta solo creando un danno al cliente e alla professione.
Un sito web è prima di tutto una trasposizione virtuale di un’identità – personale o aziendale – che esiste e si muove secondo un preciso schema fatto di valori, metodi, elementi comunicativi.
Pretendere di uniformare una tale varietà di sfumature in poche righe di codice da riproporre all’infinito, senza variazioni o quasi, significa togliere personalità al cliente e quindi svolgere male il proprio lavoro.
Ecco perché la figura del buon web designer non si costruisce attraverso lo studio rigoroso del codice e l’applicazione metodica del manuale. Il bravo professionista del web è prima di tutto votato all’ascolto, che avviene attraverso un brief approfondito con il committente e le successive tarature in corso d’opera. A questo punto Joomla e tutto il know-how che gli ruota intorno sono solo gli strumenti attraverso i quali si raggiunge uno scopo finale: la comunicazione efficace.
Il sito non sarà più un parcheggio momentaneo di informazioni poco fruibili, ma un hub veloce e performante dove il navigatore si potrà muovere agilmente tra contenuti multimediali interessanti, benefit elargiti attraverso contest o offerte speciali, spazi aperti in cui comunicare con l’azienda in modo sempre più immediato.
Basti pensare alla rapida evoluzione del servizio clienti. Vent’anni fa bisognava scrivere alla “casella postale”, poi sono entrati in gioco i centralini e i numeri verdi, che hanno lasciato spazio ai call center solo un decennio dopo. In seguito, quando internet si è diffuso in modo capillare, chi non aveva voglia di alzare la cornetta (“Mondial Casa ti aspetta!”, come non ricordarlo) poteva iniziare a frequentare i forum o scrivere qualche riga per email. A oggi anche questi ultimi due sistemi si stanno rivelando obsoleti, perché i ticket system, le live chat e le assistenze via Twitter sono diventati standard irrinunciabili.
Sotto questo punto di vista, in Italia, come rilevato dall’indagine 2011 sul comportamento d’acquisto del cliente multicanale di pmi.it, le statistiche non sono incoraggianti:
Ma noi è proprio su quel misero 13% del web che dobbiamo lavorare benissimo, affinché nel giro di pochi anni vada a lievitare fino a raggiungere la percentuale che attualmente viene riservata alle email, sistema sicuramente comodo ma che paga lo scotto della differita. L’impegno che ogni buon web designer – e ogni cliente – deve avere è l’immissione sul mercato di un prodotto sempre innovativo, senza cadere nella trappola tipicamente italiana dell’abitudinarietà.
Perché insisto su questo punto?
Noi siamo i professionisti del web, giusto? Il web è evoluzione, velocità, innovazione.
Tutto il contrario di quanto sta accadendo nel mondo reale, intricato in una fitta oscura boscaglia di schemi mentali, trafile burocratiche, raccomandate con ricevuta di ritorno e fax in bianco e nero. Non è forse nostro dovere essere gli antesignani che distruggono questi schemi attraverso il prodotto che offriamo ai nostri clienti, ricco di piccole migliorie tecnologiche che migliorano il dialogo B2B e B2C e snelliscono qualsiasi tipologia di business?
L’imprenditore italiano in primis è saldamente aggrappato a una lunghissima serie di convinzioni errate sull’approccio che l’azienda e tutto ciò che vi ruota intorno devono avere per forgiarsi del titolo di “azienda lider”. Sì, scritto proprio così, fai una bella ricerca su Google e mettiti a piangere:
Io, che sono una pessima commerciale, ho fatto veramente fatica a spingere gli imprenditori verso la novità, accolta sempre con diffidenza e accantonata con frasi tipo «no, ma i miei clienti tanto sono abituati così».
È frustrante.
Frustrante almeno quando sfoderano la solita sequela di richieste tipo “voglio il logo più grande” (guardati i video della serie Make My Logo Bigger) o “si deve vedere la foto della sede perché così si capisce che siamo grandi”.
Capisci dove dobbiamo lavorare di fino?
Te lo spiego meglio nel prossimo capitolo.
Carlotta Silvestrini
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